© Amedeo Lomonaco, Radio Vaticana ●

Affrontiamo ora un altro aspetto della guerra al centro delle polemiche e dei dibattiti dell’opinione pubblica: il ruolo della stampa nel conflitto in Iraq. La cosiddetta “guerra in diretta” infatti non è solo combattuta con le armi, ma anche con le parole ed infervora il dibattito sull’etica dell’informazione. Proprio ieri la televisione panaraba al Jazeera ha mostrato due soldati morti e due prigionieri, tutti britannici.

Il ruolo dell’informazione

 Le immagini di scarsissima qualità, puntavano come al solito sull’impatto emotivo suscitato negli spettatori di tutto il mondo: due cadaveri di uomini in divisa, ricoperti di sangue, sdraiati in terra sulla schiena. Ma quanto la stampa in questi giorni è realmente rispettosa dei  principi etici e informativi che dovrebbero animarla? Quanto alla base di tutto si nascondono interessi propagandistici delle due opposte fazioni? E soprattutto qual è il ruolo dell’informazione? Amedeo Lomonaco lo ha chiesto al prof. Stefano Martelli, docente di teoria e tecniche della comunicazione all’Università di Palermo:

 

R. – In questo momento gioca un ruolo importantissimo, perché c’è una grande aspettativa in tutte le genti del mondo a rendersi conto degli sviluppi di questa sciagurata vicenda. C’è un problema di legittimazione: America, Gran Bretagna e Australia sono intervenute senza un mandato preciso dell’Onu. Su chi ha deciso di ricorrere alle armi pesa quindi la responsabilità di giustificare quello che sta avvenendo. L’informazione ha una grande importanza proprio per la questione morale che sta dietro a queste scelte tragiche di questi ultimi tempi.

D. – La guerra delle parole e le icone delle armi possono uccidere la verità: come è possibile evitare le trappole dell’informazione?

R. – Noi abbiamo sicuramente una nuova strategia informativa, gestita dagli alleati. Gli Stati Uniti si sono resi conto che il vero fronte su cui si deve vincere non è soltanto il terreno in cui le armi parlano, ma è soprattutto il fronte interno, cioè l’opinione pubblica sia dei Paesi coinvolti nel conflitto ma anche l’opinione della società civile globale, che si esprime soprattutto attraverso le manifestazioni di protesta.

La guerra delle parole

La guerra delle parole è sicuramente più delicata e decisiva di quella delle armi. Le immagini che ci vengono dalle riprese televisive sul fronte sono icone che logorano coloro che sostengono che sarà una guerra breve, che sarà una guerra chirurgica, che le bombe sono intelligenti. Si rivela invece l’orrore della guerra, di tutte le guerre, specialmente di questa che rischia di diventare altamente disumanizzante.

Tra informazione ed etica

D. – L’offerta mediatica tende ad abbattere ogni confine, proponendo scene anche molto forti. Dove si colloca il confine tra l’esigenza informativa e l’osservanza dei principi etici?

R. – Compito delicato della professione giornalistica è quello di riuscire a rendere conto della realtà senza cadere in quella moda recente della drammatizzazione delle notizie, che fa tanto audience ma che sicuramente finisce per offendere sia le vittime della guerra, che vengono in questa maniera colpite due volte – la prima volta dalle armi, la seconda dalla immagini – ma anche l’intera opinione pubblica. Credo che da questo punto di vista sia molto bello il documento che i giornalisti cattolici dell’Ucsi, l’Unione cattolica stampa italiana, ha appena fatto uscire. Si intitola: “Un minuto di parole al servizio della pace”, in cui i giornalisti chiedono di essere illuminati da Dio affinché possano contribuire a far crescere una cultura del dialogo e le ragioni della pace. E’ un grande compito dell’informazione, riuscire a dissolvere negli spiriti la psicosi bellica e la convinzione che soltanto le armi possono risolvere i problemi.

Informazione e conflitti

D. – I giornalisti e la guerra: il ruolo dei mass media è limitato solo all’informazione, o si pongono anche dei valori aggiuntivi?

R. – Ci sono un’infinità di ruoli che la stampa, la radio, la tv e gli inviati speciali nelle zone di guerra possono svolgere per aiutare a tenere aperti i canali di dialogo, lo scambio di idee, di esperienze e tutto ciò che serve alle persone per non odiarsi. E’ necessario trovare terreni d’intesa per costruire ponti di pace.

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