Indagine sui Cie in Italia

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© Amedeo Lomonaco, Radio Vaticana ●

In Italia, i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) si devono chiudere perché contrari ai diritti umani e non efficaci nel contrastare l’immigrazione irregolare. E’ quanto si sottolinea nell’indagine “Arcipelago Cie”, a cura dell’Associazione “Medici per i diritti umani”, presentata oggi a Roma. Si tratta del primo studio realizzato da un’organizzazione indipendente attraverso visite sistematiche in tutte le strutture dopo il prolungamento, nel 2011, dei tempi di trattenimento fino a 18 mesi. Quali problematiche hanno denunciato, in particolare, gli stranieri trattenuti nei Centri? Amedeo Lomonaco lo ha chiesto a Marie Aude Tavoso, vicepresidente dell’Associazione “Medici per i diritti umani”:

 

R. – Lamentano violazioni dei diritti, impossibilità di comunicazione con l’esterno, la negazione del diritto alla difesa perché non hanno la possibilità di avere un avvocato o comunque un avvocato di loro scelta, impossibilità di conoscere i motivi e i tempi del trattenimento. Ma, come Associazione di medici, abbiamo potuto sentire diverse testimonianze di negazione del diritto alla salute, di persone nei Cie che sono malate e che non hanno accesso all’assistenza sanitaria.

Altri strumenti possibili

D. – Esistono altri strumenti che sarebbero più efficaci, anche meno afflittivi per affrontare questo fenomeno?

R. – “L’Italia ha scelto in modo discrezionale di adottare una posizione contraria ai principi che sono contenuti nella normativa europea, in particolare nella direttiva sui rimpatri. In questa direttiva, il trattenimento è l’ultima “ratio”, deve essere residuale. Ci sono altre forme alternative che consentono di arrivare all’espulsione o comunque al controllo dell’immigrazione irregolare”.

Possibili risparmi per la spesa pubblica

“In particolare, si può pensare – nel caso di una persona che debba essere rimpatriata – all’obbligo di dimora, a controlli settimanali presso le questure.Si può pensare a un sistema che si basi sul rimpatrio volontario e anche sul rimpatrio assistito. Questo sistema, invece, non viene rispettato in Italia. Il principio diventa il trattenimento, anche in casi in cui se ne potrebbe fare a meno, anche con evidenti risparmi per la spesa pubblica”.

L’Italia e gli altri Paesi dell’Ue

D. – Una parte del Rapporto è anche dedicata alla situazione dei Centri di detenzione per migranti negli altri principali Paesi europei. Cosa emerge proprio dal confronto tra la situazione in Italia e quella in altri Paesi dell’Unione?

R. – “L’Italia si è affacciata tardivamente a questo sistema: erano centri che esistevano già in altre parti d’Europa. La maggior parte degli Stati europei si sono dotati di queste strutture. Si parla, credo, di 417 centri in tutta l’Unione Europea per 37 mila posti. L’Italia, però, si distingue per la severità del regime applicato: è uno dei Paesi che prevede il periodo massimo di trattenimento consentito dalla Direttiva, ovvero 18 mesi”.

Diritti poco garantiti

“In alcuni casi si deve sommare, nel nostro Paese, a una reclusione in carcere per soggiorno irregolare, ad esempio, o per un altro tipo di reato. E poi, tra tutti i sistemi sicuramente il sistema italiano è uno di quelli che garantisce meno diritti e meno servizi alle persone detenute in queste strutture”.

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