Risposte di Paul Krugman ai critici della globalizzazione

Paul Krugman, economista di fama internazionale, insegna attualmente al Mit. Nel 1991 ha vinto la John Bates Clark Medal assegnata dall’American Economic Association ed è autore di diversi volumi di successo.

Paul Krugman

  Rispetto al tema della globalizzazione la posizione di Krugman è prudente e sostiene che è ancora presto per affermare che la globalizzazione sia un processo distruttivo e destabilizzante. In questo suo scritto tratto dal suo ultimo libro, intitolato “Economisti per caso”, Krugman risponde ad alcune tra le più frequenti critiche alla globalizzazione.

La globalizzazione è un fenomeno reale

  “L’espressione “globalpanzana” – dice Krugman – è da attribuire all’ambasciatrice Claire Booth Luce. L’ambasciatrice allude a certi discorsi di aria fritta a proposito della geopolitica ma il termine si applica altrettanto bene al modo in cui molti “guru” odierni spiegano qualsiasi cosa capiti nel mondo.   Naturalmente la globalizzazione è un fenomeno reale e gli scambi e gli investimenti sono aumentati in modo veloce per cui le economie nazionali sono divenute sempre più interdipendenti. Sia la misura di questa interdipendenza sia i suoi effetti sono solitamente sovrastimati, e, almeno tra gli intellettuali, esiste una forte tendenza a demonizzare il fenomeno, a incolparlo di tutti i mali del mondo e a negare che la crescita di scambi commerciali e investimenti possa costituire un qualche vantaggio per alcuno che non sia un bieco capitalista.

I posti di lavoro tradizionali sostituiti da nuove opportunità

Alcuni commentatori esaltano questo sviluppo, affermando che sia i paesi ricchi sia quelli poveri ne trarranno benefici. Nello stesso tempo un numero crescente di giornalisti, sindacalisti, politici e perfino uomini d’affari deplorano questa situazione, accusando la globalizzazione di essere causa di instabilità, disoccupazione e calo dei salari. Entrambe le posizioni sono erronee in quanto danno per scontata l’onnipotenza del mercato globale. Il recente libro di William Greider, “One World, Ready or Not”, è una geremiade sui mali causati da un globalismo economico sfrenato. Il libro offre una panoramica dell’economia mondiale al fine di dimostrare la tesi secondo cui l’offerta globale è superiore alla domanda globale e che la globalizzazione provoca seri danni nel mondo del lavoro. In realtà tutti i fatti descritti sono irrilevanti ai fini della tesi: tutti insieme non dimostrano altro che esistono molte industrie in cui la produttività sta crescendo e che la comparsa di nuove produzioni ha portato alla scomparsa di posti di lavoro tradizionali.

Vantaggi per le industrie e per i lavoratori

  L’errore di fondo della tesi di Greider consiste nel fatto che la logica dell’economia globale non è la stessa logica di un singolo mercato. La crescita della produttività in un settore infatti, può effettivamente ridurre l’occupazione in quel determinato settore ma supporre che la crescita della produttività riduca l’occupazione nel suo insieme è tutt’altro discorso. Sul tema della comparsa di lavori mal pagati inoltre fanno scalpore le donne e i bambini nella fabbrica di scarpe che lavorano con salari da schiavi a nostro beneficio: questo ci fa sentire sporchi. Cosi’ nascono le richieste moralistiche di norme internazionali del lavoro: gli avversari della globalizzazione insistono che dovremmo rifiutare di acquistare queste scarpe e vestiti fino a che le persone che le producono non riceveranno un salario decente. Questa posizione suona giusta, ma lo è veramente? I vantaggi delle industrie con sede nel mondo industrializzato sono ancora formidabili e la sola ragione per cui i paesi in via di sviluppo possono competere è la loro capacità di fornire manodopera a basso costo.

Opportunità di progresso

  Negare loro questa possibilità vuol dire negare loro di mantenere la crescita industriale acquisita: la crescita potrebbe anche rovesciarsi nel suo contrario. E dal momento che una crescita industriale orientata alle esportazioni, pur con tutte le sue ingiustizie, ha comportato un enorme cambiamento positivo per i lavoratori in queste nazioni, qualsiasi cosa che interrompa tale crescita andrà contro i loro interessi. Una politica di garanzie per il lavoro in linea di principio, ma incapace di dare lavoro in pratica, potrà tranquillizzare le coscienze, ma non favorirà i beneficiari cui è destinata. Dal momento che non c’è un’alternativa realistica all’industrializzazione fondata su bassi salari, opporvisi vorrebbe dire negare a persone disperatamente povere la migliore opportunità di progresso che esse abbiano ovvero un lavoro brutto e mal pagato che nonostante tutto costituisce per loro l’unica fonte di sussistenza.

Tesi anti globalizzazione sempre più pervasive

  I discorsi e le tesi contro la globalizzazione sono divenuti cosi’ pervasivi che molti osservatori sembrano determinati a incolpare i mercati globali di una quantità di mali sociali. Per esempio, i critici della globalizzazione citano spesso il caso della Francia, la cui classe politica non ha intrapreso azioni serie per ridurre il forte tasso di disoccupazione. La politica francese è effettivamente paralizzata, ma non da impersonali forze di mercato, bensi’ dalla volontà dei politici a non svalutare il franco nei confronti del marco tedesco. Gli inglesi, che hanno preferito lasciar svalutare la sterlina nei confronti del marco, hanno costantemente ridotto il tasso di disoccupazione senza visibili conseguenze negative. La causa della paralisi francese è quindi più politica che economica.

Non si dia la colpa ai mercati

  Questo ed altri casi denotano un problema di sopravvalutazione sugli effetti della globalizzazione ma anche se l’economia globale conta meno di quanto le perentorie affermazioni vorrebbero farci credere, la “globalpanzana” può creare danni reali?  Si, in parte perché il pubblico, condotto erroneamente a credere che il commercio internazionale sia la fonte di tutti i nostri problemi, può reclamare qualche genere di protezionismo, ignorando quanto di buono la globalizzazione ha fatto per tanta gente, negli Stati Uniti e all’estero.  Non possiamo quindi sfuggire alle responsabilità delle nostre azioni dando la colpa ai mercati globali che invece contengono esempi concreti di sviluppo e di diminuzione della povertà.

Dalla tesi di laurea, nel 2001, di Amedeo Lomonaco: “Limiti e potenzialità del fenomeno della globalizzazione per l’economia contemporanea”.