Referendum sulle trivellazioni: “si” e “no” a confronto

© Amedeo Lomonaco, Radio Vaticana ●

In Italia, è sempre più acceso il dibattito sul referendum del 17 aprile sulle trivellazioni. Se vincerà il “sì”, non verranno prorogate le concessioni in corso entro le 12 miglia marine. Il Partito democratico, a eccezione della minoranza “dem”, si schiera per l’astensione. In caso di mancato raggiungimento del quorum, il quesito del referendum sarà respinto. Il servizio di Amedeo Lomonaco:

 

E’ la prima volta che un referendum è richiesto dalle regioni e non tramite una raccolta di firme. Si tratta di una consultazione abrogativa e, per essere valida, è necessario che si rechi alle urne almeno il 50% più uno degli aventi diritto e che la maggioranza voti “sì”. Con il quesito referendario si chiede di vietare il rinnovo delle concessioni estrattive entro 12 miglia dalla costa. In caso di vittoria del “no” o di mancato raggiungimento del quorum, le ricerche e le attività estrattive, già in corso, proseguirebbero fino all’esaurimento del giacimento.

Referendum richiesto da 9 regioni

Le regioni che hanno chiesto il referendum sono: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. In Italia ci sono circa 130 piattaforme offshore per processi di estrazione o produzione di gas e di petrolio. Tre quarti del gas prodotto in Italia viene estratto dal mare.

Eliminare i rischi per l’ambiente, convertire l’economia rispondendo ad una prospettiva ecologica. Sono queste le priorità indicate da Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace, Associazione che chiede di votare “sì” al referendum:

 

R. – Il 17 aprile, con il “sì”, gli italiani possono allontanare definitivamente dalle loro coste delle piattaforme che lì operano da decenni e che oggigiorno estraggono pochissimo e lo fanno inquinando: è una buona occasione per riconsegnare quel tratto di mare alla sua integrità e per dare un segnale forte al governo che non è quella la scelta energetica giusta per l’Italia. Bisogna puntare sul rinnovabile e sull’efficienza energetica. Non stiamo parlando di un settore importante per l’occupazione: su queste piattaforme operano poche decine di persone. Sono strutture che, di fatto, sono telecomandate.

Ricaduta occupazionale limitata

Non vi è personale a bordo, sono controllate da remoto, da cabine di regia dove l’automazione la fa da padrona e bastano veramente pochissime persone per tenere operative queste piattaforme. Sulla questione occupazionale – stiamo parlando di energia – in questo Paese bisognerebbe fare un dibattito molto serio per rottamare questa vecchia ricetta energetica e chiedere di puntare su altro. Le compagnie, per estrarre quantitativi veramente miseri di idrocarburi, versano nelle casse dello Stato le royalties più basse al mondo: in Italia si versa solamente il 7%.

La questione delle royalties

Si consideri, peraltro, che ci sono delle franchigie, cioè dei quantitativi sui quali c’è l’esenzione da questo pagamento e molte di queste piattaforme operano producendo al di sotto di questa soglia, quindi entro questi quantitativi. Quindi, neppure pagano le royalties. E c’è un altro mito da sfatare. Questo è molto importante. Si parla di queste risorse come di “risorse italiane”. Sono italiane fin quando non viene data una concessione. Dal momento in cui viene data quella concessione, a fronte di quella miseria di royalties queste risorse diventano di proprietà delle compagnie che le estraggono. Quindi, non c’è un petrolio o un gas italiani. Ci sono un petrolio e un gas di queste compagnie che, semmai, all’Italia lo rivendono.

I rischi delle concessioni

D. – Quali sono i rischi legati al rinnovo di queste concessioni?

R. – Ogni piattaforma operante in mare è un impianto non intrinsecamente sicuro. Che cosa vuol dire? E’ una struttura che può avere degli incidenti, delle rotture, degli incendi, può collassare, può affondare. C’è una storia legata alle estrazioni off shore di gas e petrolio che è costellata di incidenti di questo tipo. Ma senza arrivare allo scenario del disastro peggiore, che in un mare chiuso come il Mediterraneo avrebbe un impatto enorme, possiamo stare sui dati dei piani di monitoraggio che noi abbiamo ottenuto dal Ministero per l’ambiente: ci dicono che, normalmente, queste piattaforme non riescono a rispettare i parametri ambientali che sono loro imposti. Tre volte su quattro le concentrazioni di metalli pesanti o di idrocarburi nei sedimenti marini presentano concentrazioni abnormi.

Il referendum del 17 aprile è ingannevole e dannoso. E’ quanto sottolinea Gianfranco Borghini presidente del Comitato “Ottimisti e razionali”, contrario alla consultazione:

 

R. – Noi, innanzitutto, invitiamo a non andare a votare. Il nostro Comitato è contro il referendum per due ragioni fondamentali: riteniamo il referendum ingannevole e lo riteniamo dannoso. È ingannevole perché i promotori vogliono far credere che gli italiani siano chiamati a dire “sì” o “no” a nuove trivellazioni entro le 12 miglia. Non è così. Il parlamento ha approvato a dicembre una legge che vieta espressamente nuove trivellazioni. Quindi, non ci sono e non ci potranno essere nuove trivellazioni. Che senso ha allora far spendere agli italiani 400 milioni di euro per farsi dire “no” a qualcosa su cui già il parlamento ha detto di “no”? Inoltre, non è un referendum di iniziativa popolare. Nessuno ha chiesto ai cittadini cosa ne pensino e nessuno ha cercato di raccogliere 500 mila firme.

Le regioni vogliono decidere sulla politica energetica del Paese

Le regioni che lo richiedono, neanche le più popolose, hanno un solo preciso obiettivo, che è politico: affermare il principio – che noi consideriamo del tutto sbagliato – che a decidere in materia di politiche energetiche, così come in materia di difesa e di politica estera, debba essere in ultima istanza non il parlamento, che ci rappresenta tutti, ma le singole regioni. Però, il referendum è anche dannoso e può fare molto male all’Italia: quello che vogliono i promotori non è che non si facciano trivellazioni – sanno benissimo che non si possono fare – ma vogliono invece la chiusura anticipata, prima cioè dell’esaurimento dei giacimenti, degli impianti di estrazione di gas che esistono da molti anni nel mar Adriatico. Impianti che contribuiscono a rifornire il Paese del gas necessario per gli usi domestici o per quelli industriali.

D. – Quali sono i benefici legati al rinnovo di queste concessioni?

R. – Il settore di estrazione del gas in Italia, sia a terra sia a mare, vale – tra gas e petrolio – circa 5 miliardi di euro. Noi, tutti gli anni, estraiamo gas e anche una piccola parte di petrolio, che contribuisce a ridurre la bolletta energetica del Paese di 5 miliardi di euro. E’ solo il 10 % del fabbisogno nazionale, ma è pur tuttavia qualcosa. Questa estrazione avviene in assoluta sicurezza, e non c’è mai stato il benché minimo incidente né all’ambiente né alle persone. Non si capisce per quale ragione l’Italia dovrebbe rinunciare a sfruttare una risorsa energetica per motivi del tutto incomprensibili. Avere un po’ di metano nazionale dà un contributo a migliorare il nostro sviluppo.

Nessun danno per il turismo

Vorrei ricordare che le piattaforme di cui parliamo sono poche – circa 90 – e sono quasi tutte concentrate nell’alto Adriatico, vicino Ravenna. Il turismo non ha sofferto in nessun modo. Le spiagge della Romagna sono tra le più pulite e non c’è stato nessun danno al paesaggio. Cè una catena di controllo sulle piattaforme. È un settore che crea ricchezza. Ci sono 10 mila lavoratori diretti e ci sono imprese industriali di prima grandezza. Coinvolge, in totale, quasi 100 mila lavoratori e dà soldi allo Stato, paga le tasse, gli stipendi, le royalties, e crea sviluppo. Perché dovremmo chiuderlo? Dobbiamo portare ad esaurimento gli impianti che ci sono entro le 12 miglia. Il parlamento questo ha deciso e questo si fa. Ma per farlo non c’è bisogno di un referendum.

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